Intervista ad un professor universitario

Abbiamo deciso di intervistare il professor Alberto Lanzavecchia, docente dell’università di Padova, per comprendere al meglio il tema dell’ambiente scolastico e della comunità

Jessica: “Volevamo iniziare da una domanda un po’ più semplice ovvero, dove lavora e in che cosa consiste il suo mestiere?”

Professore Lanzavecchia: “Lavoro all’università di Padova e sono un docente di finanza aziendale e di micro finanza. È un po’ complicato da spiegare…allora la finanza aziendale è finanza delle aziende, imprese, società mentre la micro finanza si occupa di persone in giro per il mondo in paesi un pochino diversi dal nostro”

Jessica: “Da quanto tempo fa questo lavoro?”

Professore Lanzavecchia: “A Padova dal 2010, due anni prima a Parma quindi si può dire che ho iniziato questo lavoro dal 2008”

Jessica: “Perché hai deciso di insegnare?”

Professore Lanzavecchia: “In effetti ho fatto un percorso un po’ a “zig zag” perché prima di insegnare lavoravo nella finanza e mi occupavo di consulenza e di speculazione finanziaria; poi ho visto che quel mestiere arricchiva singole persone e poi, insomma, danneggiava un po’ in giro per cui ho pensato di tronare alle origini tra i banchi di scuola. Cercavo un percorso che potesse aiutare gli altri e quindi sono tornato a studiare, diventando insegnante.”

Jessica: “Quali sono i lati positivi e negativi del suo lavoro?”

Professore Lanzavecchia: “Quando insegni non riesci a renderti conto se stai insegnando bene o male, al liceo per esempio è più facile vedere il risultato della tua operazione didattica mentre all’università è come una semina, semini e qualche studente fiorirà mentre qualcun altro potrebbe non farcela. Un altro lato negativo è che io non sarò presente in quel momento quindi non riesci mai a vedere il frutto della tua semina.”

Jessica: “Quale rapporto ha con gli studenti e colleghi?”

Professore Lanzavecchia: “Ci sono due tipi di studenti: allora, alcuni pensano di essere ancora alle superiori e vengono in aula ancora con l’approccio delle superiori, vogliono avere subito la conoscenza su formule e leggi con una formazione passiva come con un contenitore da riempire anziché pensare a un proprio futuro nel mondo; altri studenti invece cercano un proprio ruolo nel mondo, sono desiderosi di trovare il proprio posto, far qualcosa di utile non necessariamente per se stessi ma anche per gli altri , alcuni vengono per capire cosa faranno da grandi ecc… Tendenzialmente, ahimè, sono di più quelli del primo tipo che vengono per essere riempiti di nozioni.  Quelli che invece danno soddisfazione sono gli altri. Magari a distanza di 5/10 anni ti scrivono un email e ti ringraziano, e tu da lì capisci che il fiore è sbocciato, la tua semina fatta dieci anni prima è diventata qualcosa. Per quanto riguarda i colleghi anche lì ci sono due tipi principalmente: ci sono docenti che, insomma, fanno due mestieri, insegnano e cercano, bisogna sempre andare a vedere cosa c’è di nuovo ma ricordando sempre di insegnarlo, raccontarlo e spiegarlo agli studenti.  Alcuni dei miei colleghi sono ottimi ricercatori, appassionati infiniti della ricerca, ma magari sono pessimi insegnanti a cui non piace neanche insegnare. Altri invece sono appassionati educatori / comunicatori ma hanno difficolta a inserirsi nei progetti di ricerca o hanno degli approcci diversi. Quindi ci possono essere conflitti tra colleghi perché si hanno approcci diversi o perché qualcuno uno è un bravo collega e per l’altro no, viceversa.”

Jessica: “Tu hai iniziato la tua carriera di insegnate come seconda scelta perché prima facevi altro ma hai mai pensato di lasciare il tuo lavoro di insegnante?”

Professore Lanzavecchia: “Finché gli studenti, perché io faccio questo lavoro per gli studenti non per la ricerca, mi daranno la soddisfazione che l’ultima analisi è il motivo per cui uno insegna allora continuerò a insegnare. Tu fai l’insegnate non per lo stipendio che ricevi, che poi è poco, o per i colleghi che hai che tra l’altro non li hai neanche scelti tu cosa che fai invece con gli amici, non è da questi contorni che arriva la soddisfazione ma dal piacere di insegnare, per gli studenti, trovi soddisfazione per quello che fai finché gli studenti daranno segno che sei utile. Quando magari vedi che, o perché sei invecchiato o comunque hai perso entusiasmo e vedi che gli studenti non dimostrano più di trovare utile il tuo lavoro allora lì io toglierò il disturbo.”

Irene: “Ok, per quanto riguarda le responsabilità, quali sono le più pesanti e le più importati del tuo lavoro?”

Professore Lanzavecchia: “La più grande responsabilità è sapere che delle cose che tu dici agli studenti, loro le useranno, quindi esattamente come un coltello che puoi usarlo per tagliare la bistecca quella stessa conoscenza potrà essere usata per fare del bene o del male. Tu hai quindi questa responsabilità. Da un lato dai degli strumenti perché sei là per questo, dall’ altro hai il dubbio che magari li useranno male.”

Irene: “Definiresti l’ambiente scolastico una comunità?”

Professore Lanzavecchia: “Assolutamente. Tanto che l’università si chiama facoltà. La facoltà è un insieme di studenti, docenti e personale amministrativo. questo concetto di facoltà è normale, a scuola però il rapporto è insegnante/studente mentre all’università si da e riceve tra tutti e tre insieme. Non puoi organizzare le lezioni o attività di ricerca senza metterti d’accordo con il personale amministrativo, oppure come docente devi inserirti nella ricerca ma se non hai uno studente con cui poter interagire non c’è questa unione. La comunità comunque non è solo gli studenti ma è estesa anche al territorio che non potrebbe essere neanche Padova o veneto, l’università si rivolge all’umanità intera che sia medicina o scienze naturali, qualsiasi scoperta o studente opererà nel mondo e quindi è comunità. Per esempio se un pensionato viene danneggiato dal fallimento di una banca, la responsabilità è dell’università, la quale non ha formato quelle persone bancarie davanti all’incapacità di risolvere quello che hanno combinato o a prevenire. Quindi per me l’università è la comunità dell’umanità intera.”

Irene: “Parlando del confronto tra studenti / colleghi lo ricevi come un fattore importante?”

Professore Lanzavecchia: “Il vero ricercatore è un uomo del dubbio. Proponendo delle domande e cercando la risposta si procede verso la conoscenza. Siccome non sempre le domande ti vengono spontanee allora è attraverso il confronto tra studente docente o tra colleghi, dal dubbio che sorge, che si trovano le domande e poi le risposte, più persone dubitano più strada in avanti si fa nella conoscenza.”

Irene: “Oltre alle attività teoriche è importante anche fare quelle pratiche?”

Professore Lanzavecchia: “Ci sono certe speculazioni filosofiche che puoi farle guardando il cielo stellato sopra di te. altre invece come fisica o scienze naturali necessitano dell’esperimento. altre ancora, per esempio micro finanza che riguardano i diritti umani e le persone, non le puoi leggere sui libri o vederle sui film e documentari. Certe cose vanno sperimentate nei posti in cui diritti umani e le condizioni di vita sono violate. Va vissuta questa esperienza, senza esperienza/sperimento non c’è conoscenza, essa nasce dentro di te e arriva il momento in cui devi sperimentarti, trovare qualcosa dentro.”

Irene: “E a proposito di esperienza, qual è stata per lei la più bella nel suo percorso lavorativo?”

Professore Lanzavecchia: “Ne avrei una in mente una. Tre anni fa sono andato in Nepal con i miei studenti, in una zona lontana fisicamente a noi ma anche socialmente. Lì infatti ci sono delle differenze sociali chiamate caste, cioè quando uno nasce rimane in quella condizione sociale tutta la vita. Pensate che c’é una casta chiamata “l’intoccabile”.  Se un membro di uno stesso villaggio tocca qualcosa che appartiene a un intoccabile tipo un bicchiere lui non berrà più da quel bicchiere …. I miei studenti avevano studiato che la legge vietava questo tipo di discriminazione e volevano sapere se questa tradizione esisteva ancora. Così ho organizzato questa esperienza e sono stati ospitati da una famiglia di intoccabili. Alla fine del nostro soggiorno l’ultima notte abbiamo fatto una festa e alla fine questo ragazzo che ci ha ospitato ci ha salutati e mi si è avvicinato dicendomi grazie per averli fatto passare almeno un giorno da esseri umani come voi. “

Irene: “La nostra professoressa ci ha esposto proprio l’altro giorno la sua opinione sull’importanza di conservare l’italiano anche nell’ambito scolastico, quale sarebbe la sua opinione a riguardo?”

Professore Lanzavecchia: “Allora la costituzione della repubblica italiana già lo prescrive e anzi le nostre università sono state sanzionate quando hanno voluto interrogare tutti i corsi di laurea in inglese. È successo al politecnico ma anche a Padova alla facoltà di economia. dopo il ciclo della triennale su quattro corsi di laurea magistrale tre li hanno fatti in inglese, illegale perché lo studente avrebbe comunque un lessico più ridotto rispetto alle parole che si sanno in italiano. Inoltre lo studente che magari non sa bene l’inglese si ritroverebbe discriminato. Dovrebbe rinunciare a quel corso per questo motivo e quindi il principio di uguaglianza sarebbe violato. Due studenti uno bravo in inglese e l’altro no non potranno avere le stesse opportunità. Il secondo non potrebbe iscriversi a quel corso per la poca padronanza dell’inglese e quindi lo escludi da quel percorso di conoscenza, limitando anche il docente. L’insegnante ha bisogno di esprimersi durante la lezione e se non è bravo in inglese non può farlo per cui limiti la sua libertà di insegnamento. Per me la lingua è come il cibo: è la più alta espressione di cultura di un popolo. Omologarsi nella lingua e nel cibo vuol dire privare della conoscenza un popolo e quando saremo tutti omologati non ritroverai più te stesso. Ci sarebbe il caos.”

Così si conclude l’intervista al professore. Lo ringraziamo tutt’ora per il suo tempo e per le risposte che ci ha dato. Ora speriamo solo che l’intervista possa essere di vostro gradimento e soprattutto che possa esservi utile per comprendere al meglio il tema scuola/comunità.

Intervista fatta da Jessica Serea, Irene Francescon, Elena Sampognaro e Camilla Carraro e scritta a cura di Lizeth Cavinato del gruppo 3 della 1D del Liceo Enrico Fermi di Padova.

 

Le reti sociali influenzano la vita di una persona?

Intervista del 4 gruppo della classe 3E del liceo E.Curiel.

intervistatore: Federica Bolognini

intervistata: Marta Meneghetti

Ciao sono Federica e lei è Marta, frequenta la quarta di Liceo al Curiel e ci parlerà della sua esperienza.

Cosa sono per te le reti?

Per me le reti sono quell’insieme di rapporti che si formano con le persone che conosco e poi, attraverso altre reti, per esempio quella di internet, riesco a mantenere i rapporti con queste persone.

Viaggiare ti ha aiutato ad instaurare nuovi rapporti?

Si, sotto molti punti di vista… il primo è che viaggiando si creano nuove reti e nuove conoscenze, con persone del posto. Il secondo punto è che si instaurano nuovi rapporti anche con persone con cui stai viaggiando.

Qual’è il viaggio più bello che hai fatto?

L’ anno scorso, a Marzo, sono andata a New York con un progetto scolastico ed è stato  molto bello perché i rapporti che ho instaurato con le persone con cui ho viaggiato, sono stati molti e sono stati vari… perché la rete di conoscenza che avevo al ritorno era più numerosa e migliore rispetto a quella con cui ero partita.

Questo progetto di cosa trattava?

Questo è una simulazione di assemblea, nel palazzo di vetro all’Onu. Essendo un progetto internazionale, ho conosciuto un sacco di ragazzi stranieri: un gruppo di ragazzi messicani, due ragazze colombiane, un ragazzo russo, uno cinese e moltissimi americani e canadesi  che erano a New York per partecipare a questo progetto.

Preferisci avere rapporti di persona oppure virtualmente?

Personalmente preferisco avere rapporti di persona, non disprezzo però assolutamente, la rete di internet perché in questo modo riesco a mantenere un rapporto con le persone lontane o con persone che non riesco a vedere spesso, per via della scuola o altri impegni…

Progetto carcere

Intervistatore: Bortolato Marco e Chen Matteo

Intervistato: Faggion Lucia

Qual’è secondo lei il significato della parola partecipazione?

Partecipazione significa essere coinvolti, disponibili nel realizzare un progetto, come il progetto carcere. Partecipare significa dire la propria idea però confrontandosi con le idee altrui.

Quali requisiti servono per poter partecipare ad un progetto importante come il progetto carcere?

Per partecipare al progetto carcere è importante a mio parere avere una grande capacità di ascolto, non giudicare gli altri ma ascoltare. Bisogna essere sensibili e come dice l’articolo 3 della Costituzione “bisogna essere rispettosi” in quanto, anch’essi hanno una dignità. Ovviamente, per poter partecipare al progetto carcere gli studenti devono essere formati in classe e non devono arrivare in carcere impreparati, in quanto il progetto è molto importante.

Politica e bene comune con Alberto Stefani

La nostra prima intervista si è tenuta nel territorio del Comune di Borgoricco dove abbiamo intervistato il Dottor Alberto Stefani che, con le ultime elezioni, è stato nominato Onorevole. Gli intervistatori sono: Breda Riccardo, Cattapan Margherita e Gambarro Riccardo.

Secondo lei per la realtà in cui vive e lavora, cosa rappresenta il bene comune, quali sono gli elementi che lo compongono?

Allora per me il bene comune di una società, e della realtà in cui vivo, è il raggiungimento della felicità per il maggior numero di persone. Il fatto che la realtà in cui le persone sono calate permetta loro un grado di assistenza e di vicinanza a partire dalle fasce più deboli della popolazione.

Per quanto riguarda il bene comune, quali sarebbero le più importanti azioni da attuare per avere un’Italia più forte e allo stesso tempo più felice?

Allora per un’Italia più forte e più felice quello che dobbiamo raggiungere dal mio punto di vista è una possibilità di avere più lavoro, per i giovani in particolare. Questo aumento del lavoro dovrebbe derivare da una diminuzione della tasse sulla imprese che permetta quindi una maggiore possibilità di contratti di lavoro, di assunzioni, di sgravi fiscali e a sua volta questo garantisce più consumi e più opportunità di acquisto per la popolazione.

Essendo uno scopo della politica mantenere il bene comune, lei crede che in questi ultimi anni lei sia riuscita ad adempierlo in maniera corretta e/o esaustiva? Oppure ritiene che dovrebbe essere cambiato qualcosa?

Secondo me solo in parte, quello che dovrebbe essere cambiato dal mio punto di vista è l’approccio della politica nei confronti dei cittadini. Dobbiamo allontanarci dai politici di professione, ossia quelli che fanno politica soltanto per il proprio tornaconto personale, dovremmo allontanarci da chi fa politica senza avere un lavoro, perché chi fa politica senza avere una lavoro segue pedissequamente un capo partito e non pensa all’interesse generale e al bene comune. Quello che dobbiamo raggiungere è una squadra di politici che nel loro lavoro, nella società e nella realtà in cui vivono rappresentino la parte migliore di essa; rappresentino le energie migliori della società, da cogliere e far utilizzare in abito comunale, provinciale, regionale, parlamentare o anche euro-parlamentare.

Secondo lei la politica degli ultimi anni ha usato un metodo che includa tutti nel concetto di bene comune o ha usato un metodo prettamente esclusivo e mirato solo a determinate persone e/o fasce sociali?

I dati mostrano, soprattutto negli ultimi anni, che c’è stata un esclusione delle fasce più deboli, complice anche una crisi economica, da non dimenticare, che però ha acuito questo. Abbiamo un milione di persone che vive in uno stato di povertà assoluta che quindi non hanno le dotazioni minime necessarie per vivere in una maniera dignitosa. Questo significa che non hanno le risorse primarie con me il cibo, il vestiario, o come l’assistenza quotidiana come una piccola realtà comunale può fornire. Inoltre i dati ci dicono anche che abbiamo un 10,6% che vive sotto la soglia di povertà la quale un cittadino italiano non dovrebbe nemmeno vivere. Quindi i dati manifestano che la politica non è riuscita ad invertire questa rotta anzi ha notevolmente allargato la forbice tra ricchi e poveri.

Cos’è cambiato dopo il 2006, dato che l’affluenza delle persone che hanno votato è calata in modo sensibile progressivamente fino ad arrivare nel 2017 ad una 60% come attesta “Il Sole 24 Ore”?

Secondo me, in particolare, è cambiato il concetto di politica. Siamo andati nella direzione di una politica sempre più lontana dalle aspirazioni dei cittadini, una politica che ci riporta alle democrazie mediate, ovvero le democrazie della prima repubblica, in cui gli elettori non si sentivano più rappresentati da un governo che avrebbero voluto eleggere nel momento del voto, ma un governo che veniva deciso a posteriori dalle forze politiche. Questo ha allontanato notevolmente i cittadini dalla politica perché quando essi vanno a votare, votano delle forze politiche che magari poi il governo viene costituito da una maggioranza trasversale che non corrisponde al loro voto. Secondo ordine di ragioni è sicuramente il fatto che la rete ha mostrato il lato peggiore della politica, quello dei politici di professione, ha mostrato quanto in realtà il parlamento non sia costituito da grandi geni, o da grandi personalità, come dovrebbe essere, ma anche da tantissime persone che non hanno apportato alcun tipo di qualità alla politica italiana quindi un giovane non si sente rappresentato quanto magari poteva esserlo una persona cinquant’anni fa.

Secondo lei perché la metà dei giovani vede i pariti come un ostacolo alla vera democrazia? Come questa cosa può essere risolta?

Dal mio unto di vista questo può essere cambiata con un radicamento territoriale dei partiti, ovvero il partito deve tornare ad essere non una cosa distante dalla vita di tutti i giorni ma un’associazione, com’è sempre stata, radicata sul territorio, capillare che sia identificativa di alcuni valori in cui un giovane di destra, di sinistra o di centro possa riconoscersi, in determinati valori, e quindi non essere un qualcosa di distaccato dalla realtà di tutti i giorni, ma una militanza attiva quotidiana che permetta ai giovani di interagire. Adesso, secondo me, i partiti sono sempre più distanti da ottica rinchiusi nelle stanze del potere e non vicini a quelli che potrebbero essere le direzioni dei giovani e della gente comune.

Che cosa ha comportato che il 45% dei giovani non voti per fiducia ad un partito, ma voti per quello che gli sembra ” il meno peggio”; nonostante tutti i programmi dei partiti contengano promesse e buoni propositi?

Perché, secondo me, la politica ha mostrato negli ultimi anni dei cattivi esempi, che sui giovani creano diffidenza, distanza, lontananza. Un giovane ha bisogno di un esempio, ha bisogno di una giuda, anche dal punto di vista politico, che sia capace di incarnare le proprie aspirazioni. Il fatto che un giovane guardi la televisione, o anche solo affacciandosi ai vari social-network trovi dei politici inadatti, incompetenti, che pensano soltanto al proprio tornaconto personale, che pensano soltanto la proprio stipendio e non pensano a quelli che sono gli interessi che gli elettori hanno riposto in loro, manifesta e comporta una distanza non indifferente dalla politica, e questo ve lo riporta una persona che fa politica attiva sul territorio e quindi capisce cosa significhi avere davanti dei buoni e dei cattivi esempi e quanto questa differenza possa influire sulla volontà di un giovane ad avvicinarsi alla politica.

Otto giovani su dieci sono convinti che per fare carriera occorra andare all’estero, secondo lei quali sono i principali fattori di questa immigrazione e come può contenuta concretamente?

Penso che il principale fattore, e questo è di base, è il fatto che il nostro paese non è più in grado di dare l’opportunità che danno gli altri paesi europei e non. Abbiamo un classe di giovani, soprattutto negli ultimi anni, laureatasi nel campo della sanità che sono partiti e partono tutt’ora costantemente per andare nei paesi doltre Alpe, in Inghilterra e nei paesi dove soltanto ad un giorno dopo dalla laurea ci sono opportunità, contratti di lavoro che possono essere firmati e una carriera di crescita professionale che ciascuno di loro può vivere soltanto andando all’estero. Il nostro paese soprattutto in campo della sanità, o meglio della crescita professionale in questo settore, è carente dove vi è un blocco delle assunzioni. Dal mio punto di vista c’è un altro grande problema che è il fatto che un’impresa soffre di una pressione fiscale non indifferente, siamo il paese con la più alto tasso di pressione fiscale in Europa, e quindi questo comporta che dove le imprese possono vivere e assumere più serenamente, li vengono assunti i giovani, con delle condizioni di lavoro migliori e con degli stipendi più alti. Questo comporta che, a sua volta, i giovani decidono di espatriare nel momento in cui ci sia un contratto di lavoro che giustamente renda loro più giustizia e gli garantisca un posto di lavoro più dignitoso.

Comunità scolastica 1.

Intervista del gruppo 2 della classe 3^E del Liceo Scientifico “E.Curiel”

Intervistatore: Lorenzo Fortin  Intervistato: Daniela Vitturelli

Che cos’è per Lei la comunità in generale?

La comunità è un’aggregazione, un gruppo di persone di varie tipologie o, comunque, un insieme di gruppi che si trovano a condividere uno stesso ambiente o territorio e perseguono un fine comune.

Secondo Lei, qual è la miglior definizione di comunità scolastica?

La comunità scolastica è un insieme di gruppi di persone che vanno dai docenti, ai discenti, al personale A.T.A. , al personale amministrativo, ecc. che operano all’interno dell’ambiente scolastico al fine comune di formare dei cittadini responsabili.

L’influenza della tecnologia nella vita quotidiana

Intervista del quarto gruppo della classe 3^E del Liceo E. Curiel

Intervistatore: Chiara Tisato
Intervistata: Alessandra Rigato

Che lavoro svolge? Che influenza ha la tecnologia nell’ambito lavorativo?

Lavoro presso lo studio di un commercialista, la tecnologia è molto importante dato che lavoro con l’agenzia delle entrate e con i clienti, non c’è più un rapporto diretto con lo sportello e con il cliente, ma tutto si basa su mail e telefonate anziché su appuntamenti di studio e rapporti umani.

Come è stato per la vostra generazione il rapporto con le nuove tecnologie?

Alcuni della mia generazione trovano difficoltà ad approcciarsi alla tecnologia, se non addirittura hanno un rifiuto ad utilizzare i mezzi di comunicazione di massa. Per quanto riguarda me, utilizzo la tecnologia principalmente per scopo lavorativo e per tenermi costantemente in contatto con la famiglia. Mi sono creata comunque un profilo Facebook non per i rapporti interpersonali ma per le notizie che mi arrivano istantaneamente da altre parti del mondo; Instagram invece è dedicato a controllare mia figlia.

Cosa pensa dell’uso della tecnologia degli adolescenti di oggi?

I ragazzi della generazione di mia figlia non hanno riscontrato i nostri problemi perchè iniziano già ad interfacciarsi con la tecnologia da piccoli. Tutto ciò può causare problemi relazionali che sono molto frequenti tra i giovani, infatti tendono a preferire le interazioni attraverso i social piuttosto che di persona.

Gli insegnanti e la partecipazione scolastica

Intervistatori: Chen Matteo, Bortolato Marco

Intervistato: Cacco Dante

 Come si coinvolgono gli studenti in una lezione per renderli partecipi?

Non esiste una formula astratta, bisogna conoscere ed entrare un po’ in sintonia con gli studenti e poi, per quanto riguarda storia dell’arte, secondo me bisogna partire dalla situazione reale, cercando di capire quali siano le esperienze e ciò che sanno gli studenti, ad esempio mostrandogli un quadro e chiedendo loro se lo conoscano. Se questo avviene si può iniziare a studiare i dettagli dell’opera. Io personalmente preferisco ammirare un’opera dal vivo per poter entrare nel contesto in cui essa si trova. Si può cogliere l’essenza di un’opera che non si trova in una foto.

Qual’è secondo lei l’essenza della parola partecipazione?

Per dare un significato scolastico bisognerebbe aprire un dizionario di latino. Partecipare significa collaborare attivamente, il che non vuol dire restare seduti ad ascoltare una persona più anziana o più esperta di te, ma significa entrare in sintonia e in collaborazione. Calata nella realtà, la partecipazione può essere rappresentata da una classe partecipe alla lezione facendo domande, capendo che il professore non giudica ma insegna.

…perché sa che è nell’interesse di qualcuno…?

Certo! E la difficoltà è questa: far scattare l’interesse negli studenti. Partecipare non è guardare un filmato ma far qualcosa in cui ci puoi mettere il dito dentro, in cui puoi cambiare qualcosa. Il bello è che ogni cosa cambia da persona a persona. Questa per me è la partecipazione.

Comunità scolastica 2.

Intervista del gruppo 2 della classe 3^E del Liceo Scientifico “E.Curiel”

Intervistatore: Lorenzo Fortin    Intervistato: Mattia Cattelan

Come prima domanda volevamo chiederti che cos’è per te una comunità?

La comunità è un gruppo di persone che ha come scopo aiutarsi gli uni agli altri per arrivare ad un fine comune. Quindi penso che la comunità sia composta dagli elementi di un gruppo.

Come seconda domanda volevamo chiederti, che cos’è una comunità scolastica?

La comunità scolastica si può trovare all’interno delle classi quando un individuo della classe arriva a pensare al bene della classe invece che solo al proprio.

Comunità scolastica 3.

Intervista del gruppo 2 della classe 3^E del Liceo Scientifico “E. Curiel”

Intervistatore: Lorenzo Fortin     Intervistato: Emma Desiderati

Che cosa è per te una comunità?

Per me una comunità è un insieme di persone che collaborano tra di loro per un fine comune, come ad esempio in una scuola.

A tal proposito, come definiresti una comunità scolastica?

Un gruppo di studenti aiutati da professori che collaborano tra di loro per migliorare le  capacità e le conoscenze.

 

 

Regole in famiglia

Ancona Claudio, Antonini Alessandro(G), Giora Riccardo, Tommasini Davide,

Romio Manuel, Barticel Eduard.

Intervistata: Laura Ranzato

Da quanti membri è composta la tua famiglia?

Siamo in 5

In generale, pensi che sia corretto che in una famiglia ci siano delle regole, di qualunque genere esse siano?

Sì certo, trovo che le regole siano molto utili, se non addirittura fondamentali, all’ordine domestico e ad una convivenza equilibrata. Le regole possono incentivare, ad esempio, il lavoro di squadra o porre dei limiti ad eccessi o vizi di alcuni membri.

Dunque ci sono regole nella tua famiglia? Ne aggiungeresti/toglieresti alcune?

Certamente. Stabilirei un certo rispetto da portarsi gli uni nei confronti degli altri. Un’altra cosa che mi piacerebbe cambiare è il coprifuoco troppo restrittivo. Inoltre dovremmo ampliare la libertà sui rapporti, lasciando ai singoli membri della famiglia la libertà di decidere le proprie amicizie e compagnie.

Le regole che tu devi seguire valgono anche per il resto della famiglia?

No, o almeno non tutte e non lo trovo giusto.

Infrangi mai delle regole importanti? Se sì come reagiscono i tuoi?

Sì ho infranto alcune regole abbastanza importanti e i miei hanno reagito piuttosto male, rimanendo arrabbiati con me per diversi giorni e addirittura non rivolendomi la parola.

Ti hanno mai punita per aver infranto una regola? Credi di averlo meritato?

Sì ho ricevuto punizioni ma alcune credo proprio di non averle meritate. Più che altro, forse, credo che fossero esagerate, non appropriate per ciò che avevo fatto.

E in seguito a queste punizioni ti sei pentita? Più in generale, hai trovato efficace l’utilizzo di regole e punizioni?

Devo ammettere che spesso non mi sono pentita, ma regole e punizioni hanno potenzialmente una grande utilità se usate nel modo corretto.

In un testo che abbiamo letto un giornalista afferma che al giorno d’oggi i genitori preferiscono non imporre regole ma discutere. Ti risulta? Trovi che sarebbe preferibile alla situazione della tua famiglia?

La discussione sicuramente ci sta ma le regole devono esserci. Sì, mi risultano casi di “famiglie senza regole” come quella che avete descritto e mi piacerebbe molto se le cose andassero così anche nella mia famiglia, ma solo perché ormai sono cresciuta; trovo che sia giusto che le mie sorelle minori abbiano ancora delle regole ben precise.

Un’ultima domanda, pensi di costruirti una famiglia in futuro? Se sì, come ti comporterai sul fronte “regole” ?

Non ne ho proprio idea!